Copione

Copione

En. Script; Fr. Scénario; Germ. Regiebuch; Span. Guión.

Teatro greco.

Il copione o cosiddetto ‘manoscritto originale’ per i testi dei grandi autori del teatro classico quali Eschilo, Sofocle, Euripide e Aristofane rappresenta un miraggio illusorio o un ideale sempre desiderato ma spesso irraggiungibile per i filologi moderni. Un caso unico nel suo genere è costituito dal testo dell’Ifigenia in Aulide di Euripide, ultima tragedia del poeta, rappresentata postuma ad Atene, forse con la regia del figlio: dopo la morte del tragediografo il dramma era rimasto una sceneggiatura incompleta; dunque chi ne curò la messa in scena dovette rendere il testo rappresentabile, innanzitutto scrivendo un prologo che, nella forma attuale in anapesti, appare giustapposto alla bozza di uno in giambi, presumibilmente originario, e dovette pure adeguare il prologo non solo al primo episodio ma a tutto a ciò che era stato già composto, cercando di sanare alla meglio incoerenze o sezioni del dramma non del tutto sviluppate; inoltre in altri punti il testo sembra presentare indizi di rifacimenti posteriori al V sec. a.C., e, soprattutto, nella parte finale sembrerebbe derivare da un archetipo corrotto, per la presenza di errori linguistici e prosodici non sanabili (Page 1934, pp. 122-207, West 1981, Stockert 1992, Diggle 1994, pp. 358-425, Kovacs 2003, Distilo 2013, Collard-Morwood 2017, Andò 2021, pp. 18-28). Il tentativo della critica di individuare la stratigrafia dei vari interventi posteriori cronologicamente rispetto al cosiddetto originale, che già a sua volta includeva interventi precedenti alla Prima, comporta però una dissezione totale del dramma e una messa in discussione di una percentuale elevatissima di versi; eppure il testo drammatico, che è conservato, nonostante alcune incoerenze non sciolte dall’autore e che non furono volutamente modificate da chi la portò per la prima volta in scena nel V sec., ha continuato ad essere comunque rappresentato, forse con qualche variazione nei secoli successivi, per cui costituisce storicamente nella diacronia e sincronia, l’unico manoscritto che nasce già come copione e ne mantiene nel tempo le principali caratteristiche, ma questa è anche l’unica forma in cui l’Ifigenia possa essere letta e interpretata anche dalla critica letteraria.

Se il suggeritore sembra figura pertinente anche alla prassi antica del teatro (Page 1934, pp. 98-99), papiri contenenti solo selezioni di parti di un attore o annotazioni relative alla performance sono di solito documenti eccezionali e di raro ritrovamento; essi, tuttavia, costituiscono la punta emergente di un fenomeno sommerso, diffuso su ampia scala, la cui una tendenza appare in crescita dopo l’epoca del dramma ateniese: tra i manoscritti strumentali noto è il caso del P. Oxy. 4546 (I sec. a.C., o I d.C.) che contiene Alcesti, 344-52 ma solo la parte di Admeto, quelli del P. Oxy 5131 e del P. Oxy 2458, contenti rispettivamente l’Ino e il Cresfonte di Euripide, dove compaiono notazioni con lettere dell’alfabeto per indicare parti recitate da attori diversi (Gammacurta 2006, Finglass 2014 e 2016). Altro caso singolare è rappresentato da P. Oxy. 2746 (TrGF adesp. 649), contenente un testo drammatico di età ellenistica, che doveva far pare di un’antologia teatrale e nel quale Cassandra descrive a Priamo, a Deifobo e ad un coro il duello fra Ettore e Achille. Di difficile decifrazione proprio per il layout del papiro è la messa in scena di questo frammento tragico, dove tra trimetri giambici regolari si trovano versi brevi scritti in rientranza (ἐν εἰσθέσι [en eisthési]) e, preceduta da un segno diacritico di separazione (παρεπιγραφή [parepigraphé]), la parola ᾠδή [odé] ‘canto’ collocata in un verso separato: se non c’è concordanza sull’interpretazione relativa alla modalità di performance, tuttavia, per segni diacritici, disposizione, e grafia poco curata, è probabile che si tratti di una copia destinata all’uso di compagnie teatrali o di attori (Coles 1968, Catenacci 2002, Ferrari 2009, Medda 2021). Più cospicui sono i documenti papiracei interpretabili come copioni che attestano forme popolari o minori di teatro come il mimo: in questo caso per il cosiddetto mimo di Caritone (P. Oxy. 413) sono ad esempio attestate due differenti edizioni, evidentemente successive, una ampliata e l’altra ridotta per due rappresentazioni diverse, di cui la seconda appare annotata come un rifacimento della prima sul verso del medesimo documento (Gammacurta 2006, pp. 8-40). L’interrogativo più rilevante però negli originali antichi è costituito dal grande mistero della musica, parte fondamentale del testo teatrale antico, ma persa o mancante nei manoscritti conservati (per un riesame generale cf. Tessier 2018). La musica doveva con ogni probabilità già essere annotata a mo’ di hypomnemata (‘commentari’) dallo stesso autore, e pertanto avrebbe avuto circolazione solo in contesti specifici professionali delle compagnie di attori; nel 330 a.C. Licurgo fece depositare e fissò per legge le copie dei testi dei tre grandi tragici a cui si sarebbero dovute attenere tutte le compagnie teatrali ateniesi, a quanto pare dietro lettura ad alta voce del testo da recitare ad opera del γραμματεύς [grammateùs] (Plutarco, Vite dei dieci oratori, 841-42). Con questo intervento voluto da Licurgo si sarebbe radicalmente verificata, secondo Wilamowitz 1889 (1907) e poi Pöhlmann 1988, una netta separazione tra il manoscritto ‘originale’, testo della prima rappresentazione, la cui trasmissione sarebbe stata assicurata solo nell’ambito delle compagnie di attori professionisti, e quello destinato ad un’utenza esclusiva di lettori, in vendita nel comune mercato librario antico, privo di notazioni registiche soprattutto di tipo musicale, da cui sarebbero derivati poi gli esemplari che giunsero ai filologi ellenistici e che costituirono quindi gli archetipi della tradizione medievale: è Galeno nel II sec. d.C. a raccontarci che Tolemeo Evergete richiese agli Ateniesi i loro testi delle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide senza più restituire gli originali ma solo copie (commento a Ippocrate Epidemie III = XVII. 1.607.4-14 Kühn). Secondo Fleming e Kopff 1991 (cf. anche Flemming 1999), tuttavia, le copie di Licurgo avrebbero potuto contenere anche annotazioni musicali, e quindi, la colometria dei codici risalente all’età alessandrina e, infine, gli scoli metrici, attesterebbero una conoscenza ritmico-musicale anche al di fuori di contesti strettamente teatrali; anzi per la scansione metrico-ritmica i copioni in uso avrebbero potuto costituire addirittura il modello principale di riferimento. In ogni caso le poche attestazioni di manoscritti scenici papiracei con notazioni musicali precedenti o contemporanei alla sistemazione della filologia ellenistica, confrontabili con i testi dei manoscritti (P. Vindob. inv. G 2315 = DAGM 3, P. Leid. inv. 510 = DAGM 4 contenenti rispettivamente versi dell’Oreste e dell’Ifigenia in Aulide di Euripide, il secondo dei quali per di più con interspazi più larghi tra una riga e l’altra per accogliere la notazione musicale completa) non presentano una sistemazione colometrica (Gammacurta 2006, pp. 130-50) e forse potrebbero rappresentare copioni per riedizioni di età ellenistica (Prauscello 2006, pp. 123-84). Il problema di una dicotomia tra parola e musica fin dalle origini resta quindi tutt’ora insoluto, perché coinvolge anche autori come Aristofane che non furono inclusi nell’editto di Licurgo e sembra confermato dai papiri più recenti, dove la musica continua ad essere estemporaneamente e parzialmente fissata anche per testi drammatici ellenistici (cf. TrGF adesp. 649), il ché farebbe piuttosto ipotizzare una distinzione delle competenze tecniche specifiche e specializzate in ambito musicale dalle altre e, comunque, induce a ritenere la musica come la parte più variabile della performance (Prauscello 2003 e 2006). In entrambi gli orientamenti della critica per ciò che concerne le notazioni musicali l’idea di copione è però ancora concepita in maniera troppo rigida e statica, mentre in generale il fenomeno di conservazione delle partiture musicali allegate o meno al testo appare eterogeneo e essersi verificato in più modalità scritte e anche per via orale in determinati ambienti specializzati (Prauscello 2003 e 2006). In realtà anche i manoscritti medievali conservano un testo di recitazione che presenta già tracce di un suo uso pragmatico: nei codici o negli scoli sono documentati variazioni, incoerenze, corruzioni, ripetizioni, assemblaggi tra opzioni chiaramente relative a performances differenti che vengono etichettate o comunque presentate quasi sempre dagli editori o dalla critica come ‘interpolazioni’ ad opera degli attori e, quindi, in sostanza deviazioni dall’‘originale’, insomma ‘non autentiche’ (Page 1934). In realtà proprio in base a queste stesse opzioni di modifiche, attestanti occasioni e forme di recita diverse, ma incorporate nel testo e a volte menzionate solo nella tradizione scoliastica antica, come hanno rivelato gli studi di Finglass 2015 sulla Medea, si ricostruisce una prassi antica nel teatro non differente da quella moderna: nel momento in cui il testo drammatico entra in circolazione diventa uno strumento di uso fluido e questo testo, già variato e suscettibile di ulteriori modifiche per rappresentazioni successive, continua ad essere talvolta conosciuto o recuperabile o comunque avvicinabile anche potenzialmente in ambienti non tecnici, ma filologici. Perciò occorre indagare i manoscritti antichi non solo con gli ‘occhi del filologo’, ma con quello ‘degli attori’ per chiarire in genere la costituzione dei testi con cui ci confrontiamo oggi. Gli studiosi moderni arrivano però in seconda battuta dopo la grande stagione del recupero, studio e conservazione dei testi drammatici da parte della filologia ellenistica. La storia più antica della valutazione dei testi teatrali greci del V secolo comincia ad Alessandria nel III sec. a.C. e non può prescindere da ciò che questi filologi ci hanno intenzionalmente trasmesso; a ragione è stato infatti sottolineato come l’editto di Licurgo nel IV secolo, volto a vincolare le compagnie teatrali a servirsi solo di un testo accreditato, per così dire ‘di stato’ dei 3 grandi tragici, presuppone già una situazione difficilmente controllabile per il proliferare di manoscritti o copie già ‘adulterati’ da variazioni (Page 1934, p. 2). Queste ‘opzioni di cambiamento’ però a differenza di quanto si ritiene non sono solo dovute allo sviluppo professionistico su larga scala di compagnie di attori itineranti e attivi in maniera particolare dopo la conclusione della grande stagione teatrale classica ateniese, bensì in parte risalgono già ad una prassi drammatica generalizzata di reperformance precedente, seppur di dimensioni più limitate o in parte contenute, ma attestabile già a partire dal V secolo e che continuerà, nonostante il decreto, nei periodi successivi.

Se era piuttosto raro che nei concorsi principali, in occasione delle Grandi Dionisie o delle Lenee, venisse riproposto un dramma, tragedia o commedia, già portato in scena in agoni di feste cittadine, le repliche di drammi andavano di solito in turnée nei teatri dei demi, che talvolta, e occasionalmente, potevano accogliere anche Prime: famoso era ad esempio il teatro del Pireo, dove, secondo l’aneddotica, si soleva recare Socrate, ma solo per assistere al debutto di drammi di Euripide (test. 47 a TrGF ed Eliano, Variae Historiae, 2.13); o quello di Eleusi, legato alle ampie disponibilità economiche del santuario, nettamente in crescita nel corso del IV sec., tanto da essere in grado di sobbarcarsi, nel III sec. a. C, addirittura dei costi relativi degli agoni Dionisiaci, come documentano le iscrizioni. Gli allestimenti di tragedie e commedie erano proporzionati (e non di rado adattati o riadattati) non solo alle differenti strutture degli edifici teatrali, meno imponenti e attrezzati rispetto al teatro di Dioniso, ma anche ai finanziamenti stanziati dalle comunità demotiche. Esistono poi diverse testimonianze indirette sull’eventualità di rappresentazioni in Attica al di fuori del teatro di Dioniso e sull’aspetto della mobilità culturale del teatro attraverso le reperformances dei drammi antichi (Csapo -Wilson 2015, Lamari 2017). Varie fonti (Quintiliano, 10.1.66, Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, 6.11, Scolii di Aristofane, Acarnesi, 10 c, p. 7 Wilson e Rane, 868 a, p. 114 Chantry, Vita di Eschilo, 11-12) attestano per esempio che le tragedie di Eschilo avevano avuto il privilegio dalla polis ateniese di essere rappresentate anche dopo la morte del poeta, in gara con altri drammi di autori contemporanei. Ma per Eschilo alcune variazioni sono motivate in particolare da riallestimenti o riedizioni in contesti non prettamente contraddistinti da edifici teatrali, come pare possibile per le rappresentazioni dei Persiani e delle Etnee avvenute in Sicilia: qui il poeta avrebbe messo in scena una seconda volta i Persiani (cf. Erodico di Babilonia in Scolio a Aristofane, Rane, 1028 E Chantry = fr. 10 Broggiato, Eratostene in Scolio a Aristofane, Rane, 1028 F Chantry e la Vita di Eschilo TrGF 3 T1, rr. 68-69) e varie volte le Etnee a Etna, Siracusa, a Leontini, Xoutia e Temenite (cf. P. Oxy. 2257) forse in uno spazio teatrale non strutturato, ma all’interno dei luoghi adibiti alla celebrazione di feste locali (Wilson 2007, Zimmermann 2019; per l’esistenza di un teatro a Siracusa ristrutturato nel 470 a.C. dall’architetto Damocopo, detto ‘Myrrillas’, cf. Poli-Palladini 2001). Un caso interessante è costituito dall’Archelao di Euripide, i cui versi iniziali sono citati da Aristofane nelle Rane vv. 1206-8 (editi tra gli Incertarum fabularum fragmenta TrGF 846), ma in forma diversa da come sono attestati in altre fonti più tarde (ritenuti testimoni fededegni del 13 TrGF 228 dell’Archelao): la tragedia composta su committenza del re macedone, venne appunto portata in scena per la prima volta da Euripide in Macedonia tra il 408 e il 406, a Dion in Pieria (forse in occasione dei Μουσαῖα [Mousaia] istituiti appunto dallo stesso Archelao), o nell’antica capitale Ege, l’attuale Vergina, o ancora nella nuova capitale di Pella (nel teatro dove fu assassinato Filippo, fondato dallo stesso Archelao, e che ora è stato individuato da Paolo Storchi nel 2017); per l’occasione il poeta sarà stato accompagnato da top actors e da un coro di professionisti, insomma dal suo gruppo di τεχνῖται [technìtai] (Csapo 1999-2000); dopo la sua morte, in qualche modo il pubblico di Atene, tra le Lenee del 405 (quando Euripide era morto da poco) e il 404 (primavera 405 o, più probabilmente, dopo la battaglia di Egospotami e la promulgazione del decreto di Patroclide, alle Lenee del 404 o alle Dionisie dello stesso anno, Sommerstein 2009 e Cozzoli 2017), cioè tra la prima e la seconda rappresentazione delle Rane, assistette alla rappresentazione del dramma presumibilmente in qualche teatro periferico (Collard-Cropp 2008, pp. 229-33, Cozzoli 2011, Lamari 2017, pp. 45-53). L’Archelao ebbe certo poi nel corso del IV e III sec. a.C. numerose repliche, almeno due performances sono attestate da iscrizioni del III sec. in occasione degli Heraia di Argo e dei Naïa di Dodona (TrGF test. iib). I versi citati da Aristofane sono però già nel testo di età ellenistica che leggevano i filologi alessandrini, scomparsi e sono stati sostituiti dall’altro incipit; quindi, il testo che pur in frammenti è giunto fino a noi non sembrerebbe più in tutto e per tutto l’originale, che è noto solo grazie alla precedente parodia di Aristofane.

Varianti limitate o più estese di singoli o gruppi di versi o di intere scene potevano essere dovute alle compagnie teatrali per successivi riallestimenti ma anche talvolta risalire alla mano stessa dell’autore per repliche, dove modifiche si rendevano necessarie per motivi tecnici o politici. Le testimonianze più interessanti relative all’ultima problematica le offre la commedia, i cui testi, non fissati ufficialmente, andarono meno soggetti a reperfomances nei secoli successivi, e perciò, derivano direttamente da archivi di autore (Sommerstein, 2010, pp. 399-422. Wilson 2014, pp. 424-31). Nelle Rane, oltre a casi di versi mutati e alternativi ma nei nostri codici attestati in successione (ad esempio vv. 1251-60), la parte finale e conclusiva dell’agone tra Eschilo ed Euripide (vv. 1435-66) è irrimediabilmente corrotta: il testo, perciò, doveva presentarsi abbastanza problematico già in antico, come documentano le proposte dei filologi ellenistici di atetizzare alcuni versi (Scolio alle Rane di Aristofane vv. 1437-41 abcd, p. 157 Chantry), nel tentativo di sanarlo, e, pertanto, la condizione con cui ci è giunto fotografa una situazione editoriale che si pone a monte di tutta la nostra tradizione; è altamente probabile secondo la communis opinio che si siano fuse le due diverse edizioni, risalenti una alla prima delle Rane, l’altra alla replica (404 a.C.?) e siano stata preservate nell’archetipo perchè presenti nell’originale di Aristofane. Un altro caso di rilievo è attestato nell’Argumentum II della Pace, dove si legge «Viene riportato nelle Didascalie che Aristofane rappresentò (δεδιδαχώς [dedidachòs]) un’altra Pace. Non è chiaro - osserva Eratostene - se replicò la stessa (τὴν αὐτὴν ἀνεδίδαξεν [tèn autèn anedìdaxen]) o né allestì un’altra (ἑτέραν καθῆκεν [hetéran kathèken], che non si è salvata. Cratete conosceva di certo due drammi… E occasionalmente vengono citati versi che non si trovano in quelli conservata»; sono arrivate fino a noi, infatti, 4 o 5 citazioni che rimandano genericamente ad una Pace. Aristofane, quindi, operò qualche minima revisione della sua commedia per la replica registrata dalle Didascalie aristoteliche, che, con ogni probabilità, non avvenne come per la Prima rappresentata invece sicuramente in un contesto cittadino alle Dionisie nel 421, ma in qualche teatro periferico: infatti la più grande diversità dovette essere costituita dall’introduzione del personaggio di Georgìa (l’Agricoltura), a cui sono attribuiti alcuni versi citati in Stobeo (PCG, fr. 305 K.-A.); Georgìa doveva comparire nel finale come entità astratta personificata accanto ad Opora (l’abbondanza dei frutti), e così sostituire Theorìa (la Festa solenne) invece più dichiaratamente legata alle feste cittadine e alla polis e meno adatta a celebrare una festa rurale di un demo (Mureddu - Nieddu 2015); ma Aristofane dovette in parte certo ristrutturare anche le scene più rocambolesche, quali la discesa dal cielo dal tetto della skenè del protagonista, o comunque quelle che poco si prestavano ad essere riallestite, con la medesima regia e impianto scenico, in un teatro più piccolo e dotato di diverse strutture architettoniche e di macchine teatrali meno sofisticate.

Quando i critici alessandrini, a contatto anche con la prassi del teatro coevo di scomposizione antologica e di riproduzione dei testi in forme diverse di performances, talvolta menzionata negli scoli (Gentili 1977, Easterling-Hall 2002), ma soprattutto attraverso lo studio delle copie tragiche e comiche a loro disposizione, raccolte e pervenute nella Biblioteca di Alessandria, presero coscienza che il testo di un’opera drammatica è qualcosa di antropologicamente diverso da qualsiasi testo letterario antico, furono indotti a valutarlo loro per primi per così dire ‘con gli occhi degli attori’: scoprirono cioè con ogni probabilità l’importanza e il ruolo determinante della ‘messa in scena’, che si esplica nella diacronia, ma che spesso appariva o condensata nei testi che si trovarono di fronte in una sincronica presenza inestricabile di ‘opzioni drammatiche’ o in più copie che tali opzioni diverse in qualche modo registravano; perciò furono indotti ad una classificazione dei testi e ad una valutazione di questo fenomeno in maniera molto meno rigida.

Tracce del dibattito antico si riscontrano purtroppo solo in maniera sporadica. Nell’Argumentum premesso all’Oreste di Euripide, attribuito ad Aristofane di Bisanzio e trasmesso dai codici, s’indaga infatti sulla peculiare messa in scena (διασκευή [diaskeué]) che apre la tragedia: Oreste giace nei presi della reggia di Agamennone, spossato dalla follia e disteso su di un letto, accanto al quale, ai suoi piedi siede Elettra; si discute perché ella non sieda accanto alla testa: in questo modo – si osserva – avrebbe dato di più l’impressione di prendersi cura del fratello sedendosi più vicino; si soggiunge poi che verosimilmente il poeta ha abbia messo in scena (διασκευάσαι [diaskeuàsai]) così a causa del coro; Oreste infatti che da poco e a stento si era assopito si sarebbe svegliato se le donne del coro si fossero poste troppo vicine a lui, come si deduce da ciò che Elettra dice al coro ‘Zitte, zitte…’. È logico che la posizione di Elettra ai piedi di Oreste fosse atta a proteggere dell’esterno il fratello, anche rispetto all’arrivo del Coro o di chiunque altro che lo avrebbe svegliato. Da dove sia sorta la disputa antica riguardo l’esatta posizione nella messa in scena di Elettra non è chiaro; si può supporre forse che una diversa collocazione in scena di Elettra e movimenti scenici differenti fossero noti ai commentatori da una edizione del dramma, databile dal IV sec. in poi (Medda 2001, pp. 82-94, Cozzoli 2018). Dell’Oreste sono attestate repliche, una sicuramente documentata a livello epigrafico tra il 299 e il 219 a.C. (al teatro di Tegea, DID B 11, 1-2 Snell, forse a Smirne Filostrato, Vita dei Sofisti, p. 52, 16-21 Kayser a Smirne), ma ce ne furono altre, in precedenza e in seguito: i codici però, unitariamente agli Scoli, attribuiscono la battuta citata in questione al coro e non ad Elettra. Questa sezione dell’Oreste, tuttavia, difficilmente poteva essere rimessa in scena dal IV sec. in poi, come prevista nell’originale: nel IV secolo la presenza in teatro di un λογεῖον [loghèion] sopraelevato e poco accessibile al coro, un palcoscenico su cui recitavano gli attori in netta separazione dal coro, impediva di fatto l’avvicinamento e il contatto tra attori e coro; dunque, sarebbe apparso del tutto ridicolo che Elettra invitasse il coro non solo a non fare rumore ma anche a non avvicinarsi al letto, del tutto impossibile ormai come azione scenica. Il ripetuto invito di Elettra al coro di non avvicinarsi e non fare rumore ci fa intendere che il movimento del coro nell’originale messa in scena fosse concepito nella regia come un graduale avvicinamento nell’orchestra del coro ai due attori. In uno spazio teatrale con diversa e variata architettura, come è quello del IV sec., in cui avviene una netta separazione tra attori e coro, si dovette dunque optare per una soluzione di compromesso di cui rimane traccia di modifica nei nostri codici: si attribuì la battuta lirica al coro come un invito interno al gruppo dei coreuti in maniera del tutto peculiare rispetto alla prassi antica e si inserì subito prima una battuta recitata di Elettra non più in dialogo lirico con un invito analogo, ma privo però dell’ammonizione a non accostarsi (vv. 136-39); l’unica azione possibile tra coro e attori in vista di colloquio più confidenziale e sottovoce, che il testo originale richiedeva in più punti successivi a questa scena, era di far muovere Elettra dal letto ai bordi del λογεῖον verso il coro e, perciò, con ogni probabilità, è possibile che si optasse di norma appunto per collocare Elettra presso il capo di Oreste e non ai piedi per poi farla spostare più vicino al coro, ma non oltre quanto poteva, cioè non oltre i bordi del λογεῖον. Di questa variazione legata alla nuova messa in scena di IV sec. che comportò anche un’alterazione nel testo e che è conservata nei manoscritti, ebbero pienamente coscienza i filologi antichi.

Dunque, a prescindere dal problema della musica, il testo o meglio i testi e i documenti che giunsero all’età ellenistica dovettero essere molto più articolati e di varia natura, ovvero non si può escludere che i nostri manoscritti conservino in vari punti spesso tracce di un loro uso strumentale diacronico e che siano spesso molto più copioni di quanto si possa immaginare, mentre sembrano sempre di più allontanarsi dal cosiddetto originale. Perciò il filologo moderno deve prestare cautela e attenzione sulle testimonianze dirette e indirette: il testo dei drammi in nostro possesso, al di là di singole interpolazioni chiaramente distinguibili e più tarde, può essere stato già nella sua confezione testo e copione allo stesso tempo; in esso non si deve escludere che si possa cogliere cioè, in una dimensione sincronica, la diacronia delle messe in scena successive all’originale, dopo il V secolo e in alcuni casi fino ad età più tarda, senza che a volte sia possibile pervenire a vere e proprie distinzioni di cronologia relativa.

[Adele Teresa Cozzoli]


Teatro latino.

A Roma gli spettacoli teatrali si svolgono in occasione delle festività religiose e sono normalmente organizzati da ufficiali relativamente giovani, gli edili curùli (e in alcune occasioni dal praetor urbanus). Gli edili usano le festività come mezzo per assicurarsi il favore – e quindi accaparrarsi i voti – del popolo e così garantire il successo della propria carriera politica, ed è ad essi, dunque, che il drammaturgo deve far pervenire il copione di un testo teatrale destinato alla scena. Di norma, tuttavia, il copione viene acquistato presso il drammaturgo, per una congrua somma, non direttamente dagli edili ma da un intermediario da questi stipendiato, il cosiddetto dominus gregis, l’attore principale di una troupe (grex), nella maggior parte dei casi liberto; egli (o altri per suo conto) in seguito rivende il copione agli edili e mette in scena con la propria compagnia il dramma contenuto nel copione acquistato. Dal momento in cui il copione è venduto dal drammaturgo al dominus gregis, il drammaturgo non percepisce altri proventi economici (oltre all’iniziale somma della vendita), anche se il dramma viene messo in scena più volte; allo stesso modo, se il dramma si rivela un insuccesso, a farne le spese non è il drammaturgo bensì chi ha acquistato i diritti di messa in scena del dramma (il dominus gregis o comunque l’impresario/produttore al quale quest’ultimo ha venduto a sua volta i diritti). Naturalmente la conservazione di un copione dipende dal suo effettivo valore commerciale: più un dramma godrà dell’accoglienza del pubblico più ci saranno possibilità di sue ripetute rappresentazioni sceniche (d’altronde il teatro nasce sempre per l’occasione e l’obiettivo ultimo è far sì che il pubblico non diserti lo spettacolo per qualcosa di più appetibile) e quindi di sopravvivenza del copione; viceversa, è plausibile che un dramma votato all’insuccesso sia destinato anche a sparire presto dalla circolazione.

Sfortunatamente non siamo oggi in possesso di nessun copione originale proveniente dal mondo latino. Gli unici testi teatrali, discendenti dei copioni originali, che ci siano pervenuti in forma pressoché integrale sono quelli delle ventuno commedie di Plauto (le cosiddette Varronianae) e delle sei commedie di Terenzio, appartenenti all’età repubblicana; tutta la restante produzione, comica o tragica, di Atellana o mimo, è pervenuta allo stato frammentario solo grazie a citazioni per lo più a carattere grammaticale e lessicografico – e, quando siamo fortunati, grazie a Cicerone e altri autori che forniscono perlomeno un contesto letterario su cui riflettere –, mentre è ancora questione fortemente controversa quella intorno alla rappresentabilità o meno di Seneca tragico, l’unico altro autore pervenuto in forma integrale. Avere dunque allo stato attuale idea di come si presentasse un copione teatrale latino originale non è possibile; è però possibile tentare di farsene una attraverso lo studio dei testi plautini e terenziani pervenuti per tradizione diretta, ossia grazie agli esemplari in forma di codice i cui più antichi esponenti risalgono al IV-V sec. d.C. (il Palinsesto Ambrosiano per Plauto e il Bembino per Terenzio). Nell’analisi dei testi pervenuti lo studioso affronta il suo autore sul piano filologico, mentre gli rimane intangibile la dimensione teatrale originaria; anche dal testo pervenuto, peraltro, ci si rende conto che il copione è per sua stessa natura “liquido”, ossia soggetto a cambiamenti, dettati dalle esigenze più disparate; e, se questi cambiamenti sono percepibili ancora nei manoscritti in nostro possesso, non sarà azzardato ritenere che essi avvenissero anche in precedenza, probabilmente in occasione delle stesse rappresentazioni sceniche antiche. A questo proposito possiamo parlare di retractatio, ossia di ampliamenti, abbreviazioni e semplificazioni operate sul copione dal drammaturgo stesso o da coloro che in seguito ne abbiano acquistato i diritti, e di contaminatio, ossia di mescolanza tra la vicenda raccontata in un copione e quella o quelle di altri autori o anche dello stesso autore, fenomeno del resto piuttosto comune per un teatro latino che per lo più deve i suoi argomenti a quello greco.

Un celebre esempio di retractatio è quello di Plauto, Casina, 5-22. I versi del prologo della Casina a noi pervenuti sono stati scritti presumibilmente da un capocomico che dichiara di mettere in scena una vecchia commedia di Plauto, a suo tempo applaudita dagli spettatori più anziani ma sconosciuta a quelli più giovani, che ora desiderano rivederla: qui utuntur vino vetere sapientis puto / et qui libenter spectant fabulas. / [...] / Nos postquam populi rumore intelleximus / studiose expetere vos Plautinas fabulas, / antiquam eius edimus comoediam, / quam vos probastis qui estis in senioribus. / Nam iuniorum qui sunt, non norunt, scio; / verum ut cognoscant dabimus operam sedulo. / Haec cum primum acta est, vicit omnes fabulas... («quelli che bevono vino vecchio io li giudico gente assennata, come quelli che preferiscono le vecchie commedie. [...] E noi, siccome abbiamo saputo dalla pubblica voce del vostro vivo desiderio di vedere commedie di Plauto, ora vi presentiamo una sua vecchia commedia. I più anziani di voi hanno avuto modo di applaudirla; mentre i più giovani, lo so bene, non la conoscono neppure; ma noi faremo del nostro meglio per farla conoscere anche a loro. Quando fu rappresentata per la prima volta, questa commedia superò tutte le altre [...]» [trad. Augello 1969-1976]). Altro esempio di retractatio è il doppio finale del Poenulus, ove è evidente come a una prima recensio ne sia stata giustapposta una seconda, che però non prescinde completamente dalla prima, con tutti i problemi testuali e filologici che ne conseguono; per limitarci al solo verso finale delle due rispettive recensiones, ci avvediamo subito di come solo nella seconda sia presente la tipica chiusura plautina con la richiesta imperativa di applauso al pubblico (plaudite): cf. Plauto, Poenulus, 1371 si placuit, plausum postulat comoedia («ora, siccome la commedia è al suo finale, richiede i vostri applausi» [trad. Augello 1969-1976] e 1422 faciam ita ut vis. :: Age sis, eamus; nos curemus. Plaudite («farò come desideri. :: Va bene; andiamo a ristorarci. E voi applauditeci» [trad. Augello 1969-1976]). Un classico caso di contaminatio è invece noto grazie alla testimonianza di Terenzio, Eunuchus, 23-26; in occasione dei ludi Megalenses del 161 a.C. gli edili decidono di acquistare l’Eunuchus di Terenzio, come informa la didascalia di questa commedia risalente al I sec. a.C.; una volta acquistato, organizzano una “prima” alla loro presenza e forse alla presenza dello stesso Terenzio, e l’invidioso poeta Luscio di Lanuvio, riuscito ad assistervi, exclamat furem, non poetam fabulam / dedisse et nihil dedisse verborum tamen: / Colacem esse Naevi, et Plauti veterem fabulam, / parasiti personam inde ablatam et militis («si mette a urlare che l’autore della commedia è un ladro, non un poeta, e che però lui non si lascia menare per il naso; spiega che esiste una vecchia commedia di Nevio e di Plauto, intitolata L’Adulatore, e che i personaggi del parassita e del soldato sono stati presi da lì» [trad. Zanetto 2005]). Dunque, il copione dell’Eunuchus sarebbe stato “contaminato” (“insozzato” secondo l’interpretazione letterale, tecnicamente corretta, di Beare) con quello del Colax di Nevio e di Plauto; soprattutto però questa testimonianza è importante perché lascerebbe presumere che Luscio conoscesse molto bene i copioni di Nevio e Plauto per citarli così prontamente e, se li citava, lo avrà fatto a beneficio di altri che avrebbero potuto altrettanto conoscerli. È possibile che la conoscenza derivasse dal ricordo di una rappresentazione scenica, ma non è escluso che circolassero ancora all’epoca di Terenzio delle versioni scritte di copioni dei suoi predecessori, magari conservate presso il loro acquirente del momento, chiunque questo fosse, o negli archivi degli edili o presso il collegium poetarum. Si tratta tuttavia solo di ipotesi.

Col passaggio dal II al I sec. a.C., in virtù dei mutamenti politico-sociali e di quelli sul piano culturale, e a causa della conseguente assenza di figure di spicco nel panorama scenico quali furono quelle di Plauto e Terenzio, diminuiscono le produzioni, sfuma gradualmente il carattere di occasionalità del genere e si va verso la codificazione scritta; il lavorio filologico di Accio, Elio Stilone e soprattutto Varrone è una dimostrazione in tal senso e porta alla formazione di una sorta di repertorio e a quelle oggi definite dalla critica “antichissime edizioni” dei testi scenici, le antenate, in pratica, delle attuali edizioni critiche. Quale fosse l’aspetto di un’antichissima edizione non è facile a dirsi; forse nel II sec. d.C. esse circolavano sotto forma di volumina papiracei contenenti l’indicazione del cambio di interlocutore e sporadiche annotazioni al margine, ma prive di titoli di scena, di divisione delle battute e di accorgimenti tipografici di qualsivoglia genere, diverse, dunque, dalle caratteristiche dei codici più antichi delle opere sceniche oggi in nostro possesso.

Sulla storia del copione dal I sec. a.C. al IV sec. d.C. le informazioni sono scarse e vanno cercate meticolosamente in fonti apparentemente insospettabili. La caratteristica “liquida” del copione è ancora attestata in età ciceroniana, allorché sappiamo dallo stesso Arpinate che il più celebre tragoedus di Roma e suo amico, Clodio Esopo, poteva permettersi di modificare in scena le battute di un dramma inserendo passi di una tragedia all’interno di un’altra, come nel caso dell’Eurysaces di Accio “contaminato”, a scopo politico e personale, con l’Andromacha di Ennio (Cicerone, Pro Sestio, 120-23). Nello stesso periodo i retori inoltre dovevano selezionare almeno i copioni tragici per cavarne sententiae efficaci ed eleganti giri espressivi (cf. Rhetorica ad Herennium, 4.4.7; Cicerone, De oratore, 3.217-19). Per l’età imperiale le informazioni non sono maggiori. Dal Dialogus de oratoribus siamo informati del fatto che Curiazio Materno avrebbe fatto plausibilmente circolare copioni di accusa politica delle sue tragedie Cato e Thyestes, ma ignoriamo se all’epoca si trattasse ancora di testi destinati alla scena o a una lettura pubblica o privata. Fondamentale, per contro, si rivela il passo di Giovenale, Saturae, 7.82-87 che, oltre ad attestare in età adrianea l’usanza delle recitationes e l’attività di Stazio come librettista per il teatro, è l’unico passo letterario latino a noi noto che parli della vendita diretta di un manoscritto – qui un copione – da un autore a un attore: cf. vv. 86-87 ...sed cum fregit subsellia versu / esurit, intactam Paridi nisi vendit Agaven («ma dopo aver distrutto le sedie con i suoi versi, muore di fame se non vende a Paride la sua Agave ancora intatta» [trad. Santorelli 2005]), ove significativamente sono termini tecnici del lessico teatrale sia il verbo vendere sia l’aggettivo intactus, che qui tradurrei preferibilmente con “inedito” (cf. anche i senari di età traianea in Carmina Latina Epigraphica, 97.1-4 ne more pecoris otio transfungere[r, / Menandri paucas vorti scitas fabulas / et ipsus etiam sedulo finxi novas. / Id quale qualest chartis ma[n]datum diu [«per non impegnare tutto il tempo libero come le bestie ho tradotto poche commedie argute di Menandro, e anche io stesso ne ho create con cura delle mie nuove. Qualunque sia il (loro) valore, è stato da tempo affidato alle carte»]). È infine solo un’ipotesi, e probabilmente destinata a rimanere tale, quella secondo la quale si sia fortunosamente conservato un copione di accompagnamento di pantomima recitato da voce fuori campo o eseguito da cantores e coro in relazione alla Medea di Osidio Geta (Gianotti 1991, p. 138).

[Marco Filippi]


Teatro moderno.

I grandi spettacoli di contenuto biblico organizzati nei centri urbani dell’Europa occidentale nel XIV e XV secolo sono l’ambito in cui si costituisce e si identifica il manoscritto del testo drammatico come strumento di memorizzazione delle parti da recitare e di controllo della rappresentazione. Il manoscritto del testo da recitare è un oggetto che progressivamente si rende autonomo e riconoscibile, per consistenza, conservazione e funzione, fra i documenti cartacei che registrano altri fattori (elenchi di parti e attori, indicazioni e elenchi di oggetti e congegni per l’allestimento, libri di spesa). Questo manoscritto viene chiamato, sia per i mystères francesi che per i cicli dei mystery plays inglesi, original. È stato definito «testo completo della rappresentazione usato come libro di riferimento in un luogo e per un evento determinati» (Smith 2019, p. 33). Nei rispettivi ambiti linguistici, è in uso anche la semplice denominazione livre o book (sui cicli inglesi, Mills 2007). L’uso del testo da recitare implica processi di smembramento e include opzioni di cambiamento, che possono trasformarlo in palinsesto delle varianti d’uso. La versione unitaria dell’original produce la trascrizione nelle singole parti destinate ai recitanti, che esibiscono, negli esemplari conservati in diversi contesti, la caratteristica forma di rôles, o rolls, che ritroviamo anche nei rotuli della recita della passione del Colosseo a Roma tra il Quattro e il Cinquecento, negli scrolls elisabettiani e nei papeles delle compagnie professionali iberiche (per questo genere di manoscritti, Lalou 1993; per i rotuli della passione del Colosseo a Roma, Wisch - Newbigin 2013; sulle parti nel teatro elisabettiano, Palfrey - Stern 2007; per il teatro professionale spagnolo, Vaccari 2006). I manoscritti teatrali sono strumenti e sono in quanto tali portatori di tracce del loro uso e dei loro utenti. Sono i supporti di una memoria pratica e di processi di trasmissione interna ed esterna al contesto primario. Nelle scritture laudistiche delle confraternite umbre, le tracce testuali collocano le attività di rappresentazione nell’insieme dei culti e delle attività delle comunità che li adottano (Nerbano 2007). Lo smembramento del testo come conseguenza dell’uso nelle rappresentazioni è stato rilevato, in termini di dispersione, a proposito della tradizione materiale delle forme drammatiche prodotte per le feste di corte italiane del primo Rinascimento (Bortoletti 2008). Nel caso della Fabula di Orfeo del Poliziano si è ipotizzata l’identificazione nella tradizione testuale di varianti ascrivibili a una «forma teatrale» e dunque a specifici contesti e fatti di rappresentazione (Tissoni Benvenuti 1986).

I processi di trasmissione interni alle pratiche di rappresentazione cambiano, in termini quantitativi e qualitativi, con l’imporsi della drammaturgia di repertorio delle compagnie professionali, e con le conseguenti esigenze di accumulazione e memorizzazione. Poiché nella storia culturale europea Shakespeare è una parte che contiene il tutto, il problema editoriale in Shakespeare, e le condizioni della generazione di drammi nei teatri professionali di Londra tra il XVI e XVII secolo, hanno segnato la storia del playbook e la sua interpretazione come oggetto culturale caratterizzante il funzionamento dei repertori drammatici nell’Europa della prima età moderna. Nel mondo di Shakespeare si incrociano due fenomeni imponenti: l’uso dei testi nel teatro professionale e l’esito nella stampa del dramma usato dalle compagnie. L’oggetto libro tende a consolidare unità testuale e identità d’autore, mentre il manoscritto del playbook è modellato da necessità di produzione, dalla suddivisione della stesura nella (eventuale e frequente) collaborazione di più autori, dalla scomposizione delle parti per la memorizzazione degli attori, dai riverberi della memoria aurale nel gesto dello scrivano che trascrive e allestisce le copie per la censura, per la direzione di scena, per lo stock di drammi delle compagnie. Il censimento e la descrizione dei manoscritti drammatici di età elisabettiana e giacomiana (Ioppolo 2006; Werstine 2012) sono acquisizioni relativamente recenti, perché fino alla fine del secolo scorso sottovalutate dai criteri editoriali del testo shakespeariano e dalle ipotesi sulla produzione delle stampe. Pertanto, è ormai da qualche decennio obsoleta la classificazione dei (presunti) manoscritti shakespeariani (notoriamente non conservati) nelle due categorie dei foul papers (brutta copia di mano dell’autore) e prompt-book (copione della compagnia per l’uso scenico). L’idea stessa del prompt-book (che vuol dire letteralmente «testo per suggerire») come testo di riferimento operativo e strumento di conduzione della rappresentazione viene tradotta negli studi attuali, rispetto ai manoscritti conservati, nella cauta e comprensiva denominazione del playhouse manuscript. Il manoscritto drammatico rientra in una vasta gamma di usi della scrittura nelle pratiche teatrali, in una tipologia che si è andata progressivamente ampliando negli studi (Greg 1931; Stern 2009), allargando la ricognizione dei documenti inventariati (plot-scenarios, bills, advertising, scrolls, arguments, paratexts, backstage-plots), e quindi il contesto di pratiche di scrittura che incornicia la drammaturgia e accompagna i suoi peculiari processi di trascrizione. Sia la fisionomia dei testi attribuiti alla mano degli autori, sia la sistemazione pratico-tecnica dei manoscritti per l’uso teatrale generano in momenti diversi della produzione copie con caratteristiche variabili. Dalla parte degli accertati manoscritti d’autore, varie sono le fisionomie, le modalità di elaborazione e le finalità (per la lettura o l’uso scenico) degli esempi superstiti. D’altra parte, non è riconoscibile, in base a fattori come le indicazioni sceniche (stage directions) e i nomi dei personaggi (speech prefixes) la fisionomia standard di un manoscritto la cui redazione e conservazione fosse finalizzata all’uso rappresentativo (Werstine 2012, pp. 221-42). S’impone pertanto, nel lessico degli studi attuali, la nozione molteplice di playhouse manuscript, mentre viene restituita al significato acquisito nel Settecento la nozione funzionale del prompt-book come testo delle battute annotato per le entrate e le uscite usato dal bookkeeper (l’incaricato della conservazione del manoscritto unitario) quando opera come suggeritore (prompter).

In qualche caso è possibile rispondere alla domanda sull’identità tra bookkeeper e copista di compagnia. I copisti di cui sono noti i rapporti con i King’s Men (la compagnia di Shakespeare), Ralph Crane e Edward Knight, impersonano profili differenti: Edward Knight è un bookkeeper interno alla compagnia, mentre Ralph Crane è lo scrivano professionista, attivo in età giacomiana di cui si discute il ruolo di «first editor» per alcuni dei testi pubblicati nell’in folio del 1623 (Werstine 2015). Nel Roman comique di Scarron (1651), epopea nomade delle compagnie francesi minori, gli attori erranti accolgono Léandre, il collegiale in fuga dai Gesuiti di La Flèche, impiegandolo come «le valet qui écrit tous nos rôles» (I, cap. 23). Ma è solo dal primo Settecento che l’identificazione del bookkeeper e del copista con il suggeritore impone la definizione del prompt-book al book o playbook che è il manoscritto, lo script che alimenta e conserva la drammaturgia letteraria nei teatri. Il prompter John Downes è notoriamente alle origini della storiografia teatrale britannica come autore del Roscius Anglicanus (1708). Il copista di teatro impersona la necessità multiforme della cultura scritta nel teatro, l’oscillazione tra conservazione e mobilità, che risale alle funzioni del bookkeeper negli spettacoli medievali, e si esercita in un mandato molteplice: dalla cura della direzione di scena al trasferimento del manoscritto d’autore nell’uso scenico e nella supervisione della censura.

Sia testi manoscritti che stampati potevano essere destinati alla lettura, mentre le edizioni dei drammi finalizzate alla lettura potevano, come appare normale oggi, diventare la base di usi di memorizzazione e riproduzione in forma di copioni. Siamo in un fitto e delicato intreccio di atti di scrittura, discorso e lettura. I quartos shakespeariani e l’in-folio del 1623 potevano essere usati come prompt-books, e funzionare da base di revisioni e rielaborazioni sia testuali che teatrali (cf. l’esempio dell’in-quarto di Hamlet del 1676 annotato da James Ward in Chartier 2015, pp. 201-12; e in generale Evans 1960-1996). La dialettica tra stampa del testo d’autore e modificazione per la scena produce le glosse marginali degli attori sulle collezioni di testi stampati (Knight 2015), mentre i copioni manoscritti, con le rispettive alterations si fissano nella stampa di acting versions o performance publications. Il destino dei testi che hanno animato il teatro e si trasformano in libri non è solo la trasformazione in opera letteraria, ma il potenziale ritorno del dramma in scena. Nel consolidarsi del rapporto tra vita teatrale e cultura del libro, lo spazio letterario del teatro appare un sistema a n dimensioni, dove i libri, e ogni accezione materiale dei testi (non solo i playbooks), moltiplicano la possibilità degli usi. Accanto alla riproduzione dei testi da memorizzare, va ricordata la diversa gamma di manoscritti (scenari o canovacci) che alimentano le raccolte di drammi non elaborati nella redazione di parti fisse. Documenti del modo di produzione di spettacoli prevalente (ma non esclusivo) tra gli attori delle compagnie italiane tra il XVII e il XVIII secolo (poi battezzati «comici dell’Arte»), le raccolte di scenari tramandano la composizione di sequenze drammatiche le cui battute vengono create all’improvviso, inventando parti libere basate sul repertorio delle situazioni e dei tipi fissi (sulle parti libere, Taviani - Schino 1982; su generi, raccolte, e drammaturgia dei comici italiani, Marotti - Romei 1991; Testaverde 2007; Vescovo 2010).

Il rapporto tra pratica e conservazione della scrittura è esemplificato dal documento unico che è il Manuel du souffleur del copista-suggeritore Thibaut Thibaut, attivo a Parigi nel Théâtre de la Gaité, pubblicato a puntate tra il 1830 e il 1831 nel Journal des comédiens e integrato dall’autore con un manoscritto conservato nella Bibliothèque de l’Opéra (si veda lo studio di Di Baldi 2002-2003). Thibaut testimonia nel Manuel la concentrazione di ruoli dello specialista della scrittura nel processo di produzione del dramma, dalla trascrizione del manoscritto d’autore nelle parti (rôles), alle modifiche che il testo subisce durante le prove, sia nelle indicazioni sceniche che nel dialogo, per approdare alla stesura in uso per il suggeritore e il régisseur (direttore-coordinatore dello spettacolo) durante le rappresentazioni. A fronte del valore documentario del Manuel di Thibaut su creazione e uso del manuscrit de la pièce, si delinea nel XIX secolo la leggibilità dei procedimenti interpretativi legati non solo all’appropriazione e personalizzazione delle parti, ma alla più complessiva responsabilità progettuale degli attori capocomici. Processo esemplato dalla raccolta di Shattuck sui prompt-books shakespeariani (1965) e dalla collezione della Folger Library (Washington, sul web nel sito http://www.shakespeareinperformance.amdigital.co.uk). L’appropriazione e rigenerazione personale del testo di repertorio caratterizza l’attività dell’attore manager-capocomico. In Italia il termine «copione» si stabilizza nell’Ottocento per indicare il testo destinato all’uso scenico della compagnia La traccia più diretta della creazione interpretativa e drammaturgica del Grande Attore dell’Ottocento italiano, censita nei fondi personali, tra Gustavo Modena e Adelaide Ristori e il repertorio di Eleonora Duse, è sedimentata, sia per le notazioni d’intonazione che per gli aspetti scenici della trasposizione, dalle frammentarie glosse che emergono nel corpo dei testi interi e delle «parti levate» (studi recenti in Bertolone 2000; Brunetti 2008; Perrelli 2009). Alla luce delle configurazioni del lavoro teatrale, il palinsesto del copione, dei suoi margini e delle sue annotazioni, condensa tracce e proiezioni, dalla riproduzione e memorizzazione dei repertori personali, all’invenzione dello spettacolo. Luogo delle osservazioni e delle letture/scritture dell’attore, diventa supporto di drammaturgia potenziale, protesa verso la pratica scenica. Il senso del copione come strumento di ideazione e testo del progetto da realizzare si specifica con l’avvento del regista autore dell’opera-spettacolo, nei primi decenni del XX secolo. L’esempio più noto e studiato è quello dei Regiebücher di Max Reinhardt (Passow 1971).

Lo studio dei manoscritti drammatici, a maggior ragione e più profondamente rispetto a quanto sviluppato nelle consolidate analisi sul dramma stampato e sul «teatro in forma di libro» (Chartier 1999 e 2015; Taviani 2010), si profila come fattore determinante per analizzare la presenza della scrittura non solo nella drammaturgia ma nel contesto complessivo delle culture materiali dello spettacolo. Oltre le evidenze di una variantistica condizionata dalle relazioni tra drammaturgia letteraria e pratica scenica, i manoscritti materializzano i contatti tra funzioni, ipotesi e atti di creazione negli stati del testo, specialmente nei casi di responsabilità congiunta della scrittura e della scena. Ne testimonia in tempi recenti la necessaria collazione di copioni manoscritti e dattiloscritti e versioni stampate nell’edizione della drammaturgia dell’attore-scrittore De Filippo (2000-2007). E lo conferma la sensibilità alle revisioni del drammaturgo impegnato nella regia come è documentata dai quaderni di Samuel Beckett (Beckett 1994-1999).

[Raimondo Guarino]



Bibliography

Teatro greco

TrGF = Tragicorum Graecorum Fragmenta voll. 1-5, Goettingen 1986-2004, Vandenhoeck & Ruprecht; R. Kassel - C. Austin, Poetae Comicorum Graecorum, Berlin 1983-2022, Walter de Gruyter; V. Andò, Euripide. Ifigenia in Aulide, Lexis Supplementi, Venezia 2021, Edizioni digitali Ca’ Foscari; C. Catenacci, Un frammento di tragedia ellenistica (P.Oxy. 2746 = TrGF adesp. 649), in «QUCC» n.s. 70 (2002), pp. 95-104; C. Collard - M.J. Cropp, Euripide, Fragments Aegeus-Meleager VII, Cambridge MA-London 2008, Loeb Classical Text; C. Collard - J. Morwood, Euripides. Iphigenia at Aulis. Vol. 1, Introduction, Text and Translation. Vol. 2, Commentary and Indexes, Liverpool 2017, Liverpool University Press; R.A. Coles, A New Fragment of Post-Classical Tragedy from Oxyrhynchus, in «BICS» 15 (1968), pp. 110-118; A.-T. Cozzoli, Recensione a Euripides. Fragments (Aegeus-Meleager). Edd. C. Collard and M. Cropp, Loeb Classical Library, VII, London 2008, in «Exemplaria classica» 15 (2011), pp. 345-51; A.-T. Cozzoli, ‘Perché la città sia salva e continui a celebrare le sue feste con i suoi cori’ (Aristoph. Ran. 1419): la difficile scelta di Dioniso e la replica delle Rane, in S. Novelli - M. Giuseppetti, Spazi e contesti teatrali. Antico e Moderno, Amsterdam 2017, Alfredo M. Hakkert Editore, pp. 93-122; A.-T. Cozzoli, Azione drammatica e metateatro nell’Oreste di Euripide, in S. Bigliazzi - F. Lupi - G. Ugolini, Συναγωνίζεσθαι. Studies in Honour of Guido Avezzù, Skenè Theatre and Drama Studies I, 1, Verona 2018, Skenè, pp. 359-84; E. Csapo, Later Euripidean Music, in M. Cropp - K. Lee - D. Sansone, Euripides and tragic Theatre in the late fifth century, in «ICS» 24-25 (1999-2000), pp. 399-426; E. Csapo - P. Wilson, Drama outside Athens in the Fifth and Fourth Centuries BC, in «Trends in Classics» 7, Berlin-Boston 2015, De Gruyter, pp. 316-95; J. Diggle, Euripidis Fabulae, vol. 3, Oxford 1994, Oxford University Press; N. Distilo, Il Prologo dell’“Ifigenia in Aulide” di Euripide: problemi di attribuzione e tradizione testuale euripidea. Tübingen 2013, Narr Francke Attempto Verlag GmbH & Co.; P. Easterling - E. Hall, Greek and Roman Actors, Cambridge 2002, Cambridge University Press; F. Ferrari, L’altra Cassandra: adesp. trag. fr. 649 TrGF, «SemRom» 12.1 (2009), pp. 21-35; P.J. Finglass, A new fragment of Euripides’ Ino, in «ZPE» 189 (2014), pp. 65-82; P.J. Finglass, Reperformances and the Transmission of Texts, in A.A. Lamari, Reperformances of Drama in the Fifth and Fourth Centuries BC: Authors and Contexts, Berlin-Boston 2015, De Gruyter; P.J. Finglass, Mistaken Identity in Euripides’ Ino, in P. Kyriakou - A. Rengakos, Wisdom and Folly in Euripides, Berlin-Boston 2016, De Gruyter, pp. 229-318; T.J. Fleming, The Survival of Greek Dramatic Music from the Fifth Century to the Roman Period, in B. Gentili - F. Perusino, La colometria antica dei testi poetici greci, Pisa-Roma 1999, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, pp. 17-29; T.J. Fleming - E.Ch. Kopff, Colometry of Greek Lyric Verses in Tragic Texts. Atti del IX Congresso della F.I.E.C., 24-30 Agosto 1989, in «SIFC» 85 (1992), pp. 758-70; T. Gammacurta, Papyrologica scaenica: i copioni teatrali nella tradizione papiracea, Alessandria 2006, Edizioni dell’Orso; B. Gentili, Lo spettacolo nel mondo antico, Roma-Bari 1976, Laterza; D. Kovacs, Toward a Reconstruction of Iphigenia Aulidensis, in «JHS» 123 (2003), pp. 77-103; A. Lamari, Reperforming Greek Tragedy, Berlin-Boston 2017, De Gruyter; E. Medda, Euripide Oreste, Milano 2011, Rizzoli; E. Medda, Un testo per la scena: il frammento di Cassandra, (TrGF adesp. 649 K.-Sn.), in M. Jufresa - F. Mestre, Apoina, Estudis de Literatura Greca Dedicats a Carles Miralles, Barcelona 2021, Societa Catalana d’Estudis Clássics, pp. 325-44; P. Mureddu - G.F. Nieddu, Se il poeta ci ripensa: rielaborazioni e riscritture nella tradizione aristofanea, in M. Taufer, Studi sulla commedia attica, Freiburg-Berlin-Wien 2015, Rombach Verlag, pp. 55-80; D.L. Page, Actor’s Interpolations in Greek Tragedy, Oxford 1934, Oxford University Press; E. Pöhlmann, Zur frühgeschichte der Überlieferung griechischer Bühnendichtung und Bühnenmusik, in Beiträge zur antiken und neueren Musikgeschichte, Frankfurt am Main-Bern 1988, Lang, pp. 23-40 (= Festschrift für Martin Ruhnke, Erlangen 1986, Hänssler, pp. 294-306), trad. it. Sulla preistoria della tradizione di testi musicali e musica per il teatro, in B. Gentili - R. Pretagostini, La musica in Grecia, Bari 1988, Laterza, pp. 132-44; E. Pöhlmann - M.L. West, Documents of Ancient Greek Music, Oxford 2001, Clarendon Press (= DAGM); L. Poli-Palladini, Some Reflections on Aeschylus’ Aetnae(ae), in «RhM» 144 (2001), pp. 287-325; L. Prauscello, Ecdotica alessandrina e testi con notazione musicale: la testimonianza dei papiri fra prassi esecutiva e tra- smissione musicale, in L. Battezzato, Tradizione testuale e ricezione letteraria antica della tragedia greca. Atti del convegno Scuola Normale Superiore, Pisa, 14-15 Giugno 2002, Amsterdam 2003, Hakkert, pp. 57-76; L. Prauscello, Singing Alexandria. Music between Practice and Textual Transmission, Leiden-Boston 2006 («Mnemosyne» Suppl. 274), Brill; A.H. Sommerstein, The History of the Text of Aristophanes, in G.V. Dobrov, Brill’s Companion of Study of Greek Comedy, Leiden 2010, Brill, pp. 399-422; A.H. Sommerstein, Keophon and the restaging of the Frogs, in Id., Talking about Laughter, Oxford 2009, Oxford University Press, pp. 254-71; W. Stockert, Euripides. Iphigenie in Aulis, I-II, Wien 1992, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften; N. Wilson, The transmission of the Comic Text, in M. Revermann, Cambridge Companion to Greek Comedy, Cambridge 2014, Cambridge University Press, pp. 424-31; A. Tessier, Una breve storia illustrata del testo tragico greco sino a Willem Canter ad uso degli studenti magistrali di Filologia greca, Trieste 2018, Univ. di Trieste; M.L. West, Tragica V, in «BICS» 28, 1981, pp. 61-78; U. von Wilamowitz-Moellendorff, Einleitung in die attische Tragödie, Berlin 1907 (= Euripides Herakles, 1, 1889), rist. 2016, Vero Verlag; P. Wilson, The Greek Theatre and Festivals: Documentary Study, Oxford 2007, Oxford University Press; B. Zimmermann, Aischylos in Sizilien, in M. Giordano - M. Napolitano, La città, la parola, la scena. Nuove ricerche su Eschilo, SemRom Quaderni, Roma 2019, Edizioni Quasar, pp. 255-72.

 

Teatro latino

G. Augello, Plauto. Le commedie, I-III, Torino 1969-1976, UTET; S. Bartsch, Actors in the Audience. Theatricality and Doublespeak from Nero to Hadrian, Cambridge (MA)-London 1994, Harvard University Press; W. Beare, Contamination in Plautus and Terence, in «RPh» 66 (1940), pp. 28-42; W. Beare, The Roman Stage. A Short History of Latin Drama in the Time of the Republic, London 19643, Methuen; G.E. Duckworth, The Nature of Roman Comedy. A Study in Popular Entertainment, Norman (OK) 19942, Bristol Classical Press; G.F. Gianotti, Sulle tracce della pantomima tragica: Alcesti tra i danzatori?, in «Dioniso» 61/2 (1991), pp. 121-49; E. Paratore, Indizi di natura sociale nel teatro latino, in «Dioniso» 43 (1969), pp. 37-58; C. Questa, Tito Maccio Plauto. Commedie, Milano 1953, Rizzoli; Id., Sei letture plautine, Urbino 2004, QuattroVenti; C. Questa - R. Raffaelli, Dalla rappresentazione alla lettura, in G. Cavallo - P. Fedeli - A. Giardina (edd.), Lo spazio letterario di Roma antica, III, La ricezione del testo, Roma 1990, Salerno Editrice, pp. 139-215; B. Santorelli, Giovenale. Satire, Milano 2011, Mondadori; G. Zanetto, Publio Terenzio Afro. Eunuco, Milano 20053, BUR.

 

Teatro moderno

S. Beckett, The Theatrical Notebooks of Samuel Beckett, General Series Editor James Knowlson, I-IV, New York 1994-1999, Grove Press; P. Bertolone, I copioni di Eleonora Duse. «Adriana Lecouvreur», «Francesca da Rimini», «Monna Vanna», «Spettri», Pisa 2000, Giardini; F. Bortoletti, Egloga e spettacolo nel primo Rinascimento. Da Firenze alle corti, Roma 2008, Bulzoni; S. Brunetti, Autori, attori, adattatori. Drammaturgia e prassi scenica nell’Ottocento, Padova 2008, Esedra; R. Chartier, Publishing Drama in Early Modern Europe, London 1999, The British Library; R. Chartier, La main de l’auteur et l’esprit de l’imprimeur, Paris 2015, Gallimard (traduzione italiana basata sull’edizione inglese del 2014, Roma 2015, Carocci); E. De Filippo, Teatro, a cura di N. Di Blasi - P. Quarenghi, I-III, Milano 2000-2007, Mondadori, I Meridiani; N. Di Baldi, Un manuale sull’arte del suggeritore, in «Teatro e Storia» XVII (2002-2003), pp. 549-59; G. Blakemore Evans (ed.), The Shakespearean Prompt-books of the Seventeenth Century, I-VIII, Charlottesville 1960-1996, University Press of Virginia; J. Downes, Roscius Anglicanus, or an Historical Review of the Stage, London 1708, Playford (new edition, ed. by J. Milhous - R.D. Hume, London 1987, The Society for Theatre Research); W.W. Greg, Dramatic Documents from the Elizabethan Playhouses, Oxford 1931, Clarendon Press; W.W. Greg, Prompt-book, in Enciclopedia dello Spettacolo, VII, Roma 1961, Le Maschere, p. 538; R. Guarino, Editorial, in R. Guarino - L. Buhl Petersen, Beyond Books and Plays. Cultures and Practices of Writing in Early Modern Theatre, in «Journal of Early Modern Studies» 8 (2019), pp. 7-16; G. Ioppolo, Dramatists and their Manuscripts in the Age of Shakespeare, Jonson, Middleton and Heywood, London 2006, Routledge; M.J. Kidnie - S. Massai (edd.), Shakespeare and Textual Studies, Cambridge 2015, Cambridge University Press; J.T. Knight, Shakespeare and the collection: reading beyond readers’ marks, in Kidnie - Massai 2015, pp. 177-95; É. Lalou, Les rolets de théâtre. Étude codicologique, in Théâtre et spectacles hier et aujourd’hui: Moyen Âge et Renaissance, Paris 1991, Éditions du CTHS, pp. 51-71; F. Marotti - G. Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. La professione del teatro, Roma 1991, Bulzoni; D. Mills, Brought to Book: Chester’s Expositor and his Kin, in P. Butterworth (ed.), The Narrator, the Expositor and the Prompter in European Medieval Theatre, Turnhout 2007, Brepols, pp. 307-26; S. Palfrey - T. Stern, Shakespeare in Parts, Oxford 2007, Oxford University Press; W. Passow, Max Reinhardts Regiebuch zu Faust I, Untersuchungen zum Inszenierungsstil auf der Grundlage einer kritischen Edition, München 1971, Kitzinger; F. Perrelli, Adelaide Ristori e il copione del «Grande Attore», in «Ariel» 24 (2009), maggio-dicembre, 2-3, pp. 50-68; J. Stone Peters, Theatre of the Book, 1480-1880. Print, Text, and Performance in Europe, Oxford 2000, Oxford University Press; C.H. Shattuck, The Shakespeare Promptbooks, Urbana 1965, University of Illinois Press; D. Smith, About French Vernacular Tradition. Medieval Roots of Modern Theatre Practices, in Guarino - Petersen 2019, pp. 33-67; T. Stern, Documents of Performance in Early Modern England, Cambridge 2009, Cambridge University Press; F. Taviani, Uomini di scena uomini di libro (I ed. Bologna 1995), Roma 2010, Officina Edizioni; F. Taviani - M. Schino, Il segreto della Commedia dell’Arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII e XVIII secolo, Firenze 1982, La Casa Usher; A.M. Testaverde (ed.), I canovacci della Commedia dell’Arte, Torino 2007, Einaudi; A. Tissoni Benvenuti, L’Orfeo del Poliziano, con il testo critico dell’originale e delle successive forme teatrali, Padova 1986, Antenore; D. Vaccaro, I papeles de actor della Biblioteca Nacional de Madrid. Catalogo e studio, Firenze 2006, Alinea; P. Vescovo, «Farvi sopra le parole». Scenario, ossatura, canovaccio, in Commedia dell’Arte. Annuario internazionale 2 (2010), pp. 95-116; P. Werstine, Early Modern Playhouse Manuscripts and the Editing of Shakespeare, Cambridge 2012, Cambridge University Press; P. Werstine, Ralph Crane and Edward Knight: professional scribe and King’s Men’s bookkeeper, in Kidnie - Massai 2015, pp. 27-38; B. Wisch - N. Newbigin, Acting on Faith. The Confraternity of the Gonfalone in Renaissance Rome, Philadelphia 2013, Saint Joseph’s University Press.